30 ottobre 1977: un giorno maledetto

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30 ottobre 1977: un giorno maledetto. Storia di una domenica che ha segnato la storia del Perugia e di una famiglia, di figli e di tifosi

 

Pioveva quella maledetta domenica, pergiove se pioveva!

Era anche rigido, pieno autunno, non come ora che a fine ottobre è più caldo che a maggio.

Io – appena tredicenne – ero abbonato in curva già da un paio di anni e noi “freghetti” eravamo ipereccitati che quella domenica tornava al Pian di Massiano la Juve.

Già la Juventus era la Juventus, poi si era creata una rivalità accesa, quanto insperata tra la squadra più blasonata d’Italia ed il fenomeno di provincia.

Nel campionato 1975/76, infatti, il Grifo con un gol di Renato Curi aveva conquistato una storica vittoria contro la Juve consegnando dopo 27 anni lo scudetto agli “odiati” cugini del Toro, quello di Pulici, Graziani e Mister Radice.

Nella Juve che stava arrivando a Perugia – reduce dalla vittoria del campionato precedente con il record di punti nei campionati a 16 squadre e la vittoria della Coppa UEFA contro l’Athletic di Bilbao – giocavano tanti campioni che acclamavamo in Nazionale: Zoff, Bettega, Boninsegna, Benetti, Causio, ecc.

Ma quella volta erano i “nemici”.

E noi non vedevamo l’ora di veder “ridicolizzati” tutti quei campioni dai nostri Curi, Vannini, Nappi, Ceccarini, Frosio, con un’altra vittoria.

La settimana non passava mai nell’attesa del “big match” della domenica.

A scuola, per strada, nell’autobus, nei negozi, al bar l’argomento era solo quello: Perugia-Juventus.

Respiravamo a pieni polmoni il clima di spasmodica attesa che permeava tutta la città: domenica arriva la Juve!

Fioccavano le telefonate per pianificare lo stadio: «andiamo presto, così siamo lì all’apertura dei cancelli e possiamo prendere i posti in Curva!».

Il venerdì – come un fulmine e ciel sereno – mia madre mi comunicò che la domenica venivano degli amici da fuori Perugia a pranzo a casa e, quindi, non sarei potuto andare allo stadio.

Apriti cielo!

Pianti, urli, strepiti ed insulti a quei poveretti che ci venivano a rompere le scatole proprio la domenica di Perugia-Juve: ma perché non se ne stavano a casa loro?

Buscai anche qualche sganassone e qualche ciabattata (mia madre aveva una mira infallibile e non sbagliava un colpo).

Alla fine intervenne – come sempre – il Babbo a pacificare gli animi, patteggiando con la Mamma che sarei rimasto a casa a salutare gli ospiti e poi me ne sarei potuto andare allo stadio.

Precettò pure il mio povero cugino – già maggiorenne e patentato – che mi sarebbe dovuto venire a prendere a casa ed accompagnarmi allo stadio.

Chiaramente quando parlava il Babbo – vero paterfamilias – era legge: mia madre, pur brontolando come una pentola di fagioli, si dovette uniformare al suo volere.

Mio cugino, invece, nemmeno si sognò di obiettare alcunché ed ubbidì incondizionatamente a farmi da “tassista” e “chaperon”.

La domenica mi svegliai prestissimo, nonostante sia sempre stato un dormiglione: finalmente era arrivata la domenica!

Anche mia madre si svegliò presto ed appena vide il tempaccio che attanagliava Perugia, ritornò prepotentemente alla carica.

Troppa pioggia, troppo freddo lì in Curva Nord: mi sarei sicuramente preso un malanno.

Non era il tempo adatto ad un bambino (per la mamma siamo bambini anche a 50 anni…) per starmene ore esposto agli elementi.

Alla partita non dovevo andare!

In effetti – col senno di poi, ora che sono padre – con quel tempaccio sarei stato anch’io restio a mandare allo stadio mio figlio tredicenne, ma la prospettiva di allora non è quella di oggi.

Mi appellai ancora una volta al Giudice supremo di casa: mio padre.

Il Babbo quella mattina, però, non era in gran forma.

Aveva passato una settimana difficile, tormentato da bruciori di stomaco che – nonostante le medicine – non se ne volevano andare.

Quella mattina – oltre ai soliti bruciori di stomaco – aveva anche un fastidioso dolore al braccio sinistro ed un senso di oppressione al petto.

Con fatica convinse mia madre – che non se la sentì di contraddirlo ulteriormente – che fosse lei a decidere cosa avrei dovuto indossare per andare allo stadio (anche lo scafandro da palombaro, se l’avesse ritenuto necessario), ma ormai me l’avevano promesso e le promesse a casa nostra si mantenevano sempre.

Lui, però, stava sempre peggio e mia madre lo convinse a chiamare un amico medico, il quale quella mattina era di turno al Pronto Soccorso

Questi gli consigliò di fare un salto in Ospedale che gli avrebbe dato un’occhiata.

Prendemmo la nostra 126 ed andammo a Monteluce.

Mentre stavamo entrando al S. Maria della Misericordia, proprio davanti alla chirurgia d’urgenza, a pochi metri dal Pronto Soccorso, il Babbo bloccò l’auto, si portò la mano al petto e si accasciò sul volante.

Io rimasi terrorizzato, impietrito e la fortuna volle che il nostro amico medico fosse a pochi metri da noi, fuori il Pronto Soccorso che ci aspettava ed accorse immediatamente con una barella ed un paio di infermieri.

Lo portarono dentro e, pochi minuti dopo, usci in barella, esanime, intubato e fu portato in rianimazione con un’ambulanza.

Io – come in trance – ebbi la presenza di spirito di telefonare a mia madre, poi crollai piangendo su una panchina lì fuori.

Mi passò di mente lo stadio, il Grifo, la Juve, tutto: pensavo solo che il Babbo – la mia roccia, il mio punto di riferimento – era in pericolo di vita.

Attesi mia madre in rianimazione che – al tempo – era sotto il padiglione della Chirurgia “nuova”.

Stemmo lì su alcune sedie inebetiti senza cognizione del tempo, finché non arrivò il Prof. Solinas – l’allora primario di cardiologia – il quale ci rassicurò dicendoci che il Babbo aveva avuto un brutto infarto, che ora era sedato e controllato, ma che non era in pericolo di vita.

L’avrebbero trattenuto un paio di giorni in rianimazione e – se non vi fossero state complicazioni – poi l’avrebbero trasferito in cardiologia.

Il sollievo per la stupenda notizia mi fece crollare la tensione e mi addormentai come un sasso sulla spalla di Mamma.

Dopo un po’ di tempo – sinceramente non so dire quanto – mi svegliò del trambusto in rianimazione: il reparto si affollò improvvisamente, porte che si aprivano e chiudevano, polizia e medici.

Ci fu intimato di rimanere seduti dove eravamo, finché non entrò nel reparto una barella attorniata da tante persone ed uno (medico o infermiere) che scuoteva la testa e diceva disperato ad un altro “l’abbiamo perso, è morto, è morto”.

Facce sgomente, gente che piangeva.

Preoccupatissimo chiesi a mia madre del Babbo e lei mi rassicurò dicendomi che tutto quel trambusto era per un altro poveretto.

Nascosi la testa sotto il braccio di mia madre, non volendo vedere tutto quello strazio.

Solo la sera – a casa di parenti che ospitarono me e mia sorella, dato che mia madre rimase la notte in ospedale – scoprii che cosa era successo e che su quella barella c’era il povero Renato Curi.

Quel trottolino con la faccia simpatica, una zazzera di capelli ricci ed i baffoni, che aveva sempre un sorriso per noi “freghetti”.

Quel magnifico calciatore che ci aveva riempito di orgoglio e di vanto segnando alla Juve, che aveva nobilitato il numero 8, come se fosse il 10.

Renato Curi non c’era più.

Proprio contro la Juve se n’era andato, dentro lo stadio che lo idolatrava.

Ed io piansi ancora.

Anche se io ho avuto la fortuna di godermi tanti anni ancora mio padre ed ho avuto la Grazia che i familiari di Curi purtroppo non hanno avuto, quel maledetto 30 ottobre 1977 non me lo dimenticherò mai.

Forza Grifo.

Avv. Gian Luca Laurenzi